Pilastri

FUGA DEI CERVELLI

 “Ogni volta che un laureato se ne va dall’Italia, è un assegno di 250.000 euro che noi andiamo a versare sul conto di un Paese che poi ci farà la competizione sui mercati internazionali, spesso con le idee sviluppate da italiani che abbiamo formato con i nostri soldi” [cit. Lorenzo Fioramonti].

La maggior parte dei giovani studenti più talentuosi sono in fuga da carriere accademiche, consapevoli che il percorso di carriera è incredibilmente lungo e scarsamente supportato da finanziamenti per ricerca o dottorati.

Anche quando sei considerato uno studente brillante e ottieni l’accreditamento nazionale per insegnare in un’università, è raro che si aprirà un lavoro di ruolo.

Se invece fai parte di coloro che si stanno per lanciare all’interno del mondo delle imprese (private e non), sarai deluso di scoprire prospettive di carriera e di retribuzione ben al di sotto della media rispetto ai tuoi coetanei in Europa.

Secondo una ricerca dell’ufficio studi di Pricewaterhousecoopers, ad oggi, un italiano su due va via del nostro paese per motivi di lavoro.

In tutte queste numerose contingenze di mercato, i governi si sono preoccupati di adottare misure funzionali a far fronte al cd. fenomeno migratorio, principalmente attraverso l’applicazione di sgravi fiscali a laureati e/o lavoratori espatriati, occupandosi pertanto esclusivamente di chi rientra nel nostro paese anziché di porre un argine all’esodo di massa dei giovani.

Come se tutto questo non bastasse, l’ultimo cd. “decreto Crescita” ha aumentato l’entità degli sgravi fiscali per i lavoratori rimpatriati attraverso un abbattimento dell’imponibile che passa dal 50% al 70% e che può addirittura toccare il 90% se la residenza rientra in una delle regioni del Mezzogiorno.

Tali manovre, nel lungo termine, rischiano di provocare enormi disuguaglianze ed asimmetrie competitive all’interno del mercato del lavoro, creando un gap interno di reddito con tutti i lavoratori che per anni hanno contribuito, in termini di gettito, alle casse del nostro Paese ed ai quali oggi non viene riconosciuta alcuna valorizzazione.

La soluzione al problema dovrebbe essere pertanto ricercata nella creazione di valore di un tessuto economico, sociale ed imprenditoriale in grado di generare ricchezza umana così semplicemente da garantire ad un giovane di poter vivere e lavorare nel proprio paese.

REVISIONE ENERGETICA E AMBIENTALE

In attuazione di due importanti direttive europee (norme sulla prestazione energetica nell’edilizia e l’efficienza energetica, e norme per la promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili) il Governo ha adottato nel luglio 2019 un primo decreto che ridefinisce gli incentivi per le rinnovabili elettriche in Italia e premia l’autoconsumo di energia. Questa prescrizione dovrebbe assicurare l’installazione di una potenza fotovoltaica aggiuntiva di 8 gigawatt (Gw, milioni di kilowatt). Un secondo decreto (Fer 2) è invece previsto per incentivare la produzione energetica proveniente da biomasse e geotermia. Inoltre, a gennaio 2019, il Governo italiano ha inviato alla Commissione europea la bozza del Piano Nazionale Integrato Clima Energia (Pniec), obbligatorio per tutti gli Stati membri Ue e soggetto alla consultazione pubblica e alla Valutazione ambientale strategica (Vas).

È necessaria però una revisione sostanziale del Pniec, che porti il taglio delle emissioni di gas serra al 55% al 2030 e lo integri alla strategia europea di azzeramento delle emissioni entro il 2050. Il Pniec propone infatti al 2030 un’ormai obsoleta riduzione del 33% delle emissioni di gas serra (inferiore rispetto alla media europea), ma anche un significativo aumento del 43% dell’efficienza energetica primaria. Il Pniec prevede inoltre il phase out del carbone entro il 2025, senza però aver ancora elaborato un programma strutturato di riqualificazione dell’occupazione.

L’ASviS in questo contesto chiede dunque di rispettare la scadenza del 2025 per l’eliminazione del carbone nella generazione elettrica, assicurando però una prospettiva alternativa a comunità e lavoratori coinvolti; richiede inoltre di eliminare i sussidi dannosi per l’ambiente, introducendo strumenti di carbon pricing, e di procedere a una revisione della ripartizione dei proventi delle aste Ets (quote di emissione da parte dei grandi inquinatori, 1,4 miliardi di euro nel 2018), destinati al sostegno degli obiettivi di decarbonizzazione.

Quattro su cinque centrali elettriche che utilizzano questo combustibile in Europa oggi operano in perdita. Ciò ha portato nel 2019 un ‘rosso’ complessivo di 6,6 miliardi di euro. La continua discesa dei costi di generazione da fonti rinnovabili e il recente crollo dei prezzi del gas nel Vecchio

Continente hanno reso il carbone sempre meno competitivo (anche se il carbone stesso è calato di prezzo). Per il phase out del carbone occorre promuovere iniziative imprenditoriali per il finanziamento di metanodotti, per riuscire a convertire le otto centrali presenti in Italia: in tal caso possono essere molto utili finanziamenti regionali, ma anche comunitari. Sebbene il 2025 sia vicino e la conversione sia inserita nei piani del Governo, potrebbe essere interessante coinvolgere un team di esperti per evidenziare le procedure tecniche volte alla trasformazione delle tecniche di utilizzo dei combustibili e l’analisi economica da essa derivante.

SANITA’

Il Sistema Sanitario è un sistema universalistico che da garanzie di assistenza a tutti e questo è un qualcosa che non va disperso, è una conquista che non può essere vanificata.

Il fatto che la sanità sia a gestione regionale comporta dei diversi livelli di qualità a seconda di chi la gestisce e di conseguenza chi più sa gestire le risorse, offre servizi migliori.

Esistono in alcune regioni gestioni non ottimali e ciò causa una dispersione delle risorse. Questo crea delle disparità di trattamento del cittadino, favorendo le regioni meglio organizzate che attraggono così utenza extra-regionale.

Uno dei principali problemi è, tra l’altro, l’eccessivo ricorso all’ospedalizzazione. Questa problematica potrebbe essere gestita in maniera più economica, offrendo maggiori servizi sul territorio e rafforzando l’assistenza per i pazienti cronici in servizi extra-ospedalieri che pesano molto di meno nel bilancio delle regioni.

Pensare ad una soluzione per un settore che vive in dissesto da decenni, sarebbe come andare alla ricerca dell’elisir di lunga vita, però noi vorremmo fornire alcune indicazioni secondo il nostro punto di vista.

Andrebbe effettuato un potenziamento della prevenzione che per funzionare però deve dare servizi e risposte in tempi brevi, altrimenti diventa un collo di bottiglia.

Per ottimizzare le cattive gestioni ed eliminare gli sprechi la riforma manageriale nella sanità, così come previsto nelle norme, predispone una gestione indipendente dalla politica da parte di chi è deputato al controllo delle aziende sanitarie.

Se la politica sceglie un manager per gestire tali aziende, deve valutarlo e non influenzarlo. Dovrà sicuramente rispondere ai rappresentanti politici ma sulla base di risultati ottenuti e non sulla base dei benefici che da al sistema stesso.

Le risorse risparmiate per il ricorso improprio all’ospedalizzazione andrebbe investito per l’ammodernamento delle strutture, acquisti di nuove tecnologie e valorizzazione delle professionalità perché in una visione moderna della sanità non si può solo pensare alla cura ma bisogna investire soprattutto nella ricerca che porta benefici in termini di efficienza, migliori terapie e quindi risparmio nel lungo termine.

Andrebbe incentivata una maggiore sinergia tra tutte le strutture, pubbliche e private convenzionate, per creare una rete di professionalità, una rete d’emergenza e per migliorare i servizi offerti ai cittadini.

In ultimo, e non per ordine d’importanza, bisognerebbe coinvolgere le università in senso pratico per dare benefici in termini culturali al mondo sanitario, formando quella che sarà la nuova classe medica tenendo conto che l’università, avendo una maggiore vocazione alla ricerca e alla formazione, svolge un ruolo importante anche per il confronto tra il mondo clinico ed il mondo scientifico.

SCUOLA DI FORMAZIONE POLITICA

La scuola è aperta a tutti. E’ aperta a tutti, ma non può trattare di tutto, perché questo contraddirebbe qualsiasi regola di efficacia didattica. Da questa regola nasce l’esigenza di un perimetro. Un perimetro non è confine rigido, ma serve solo a identificare un insieme di problemi che possono essere affrontati in modo coerente in un processo di formazione politica. A questo scopo è anzitutto necessario delimitare (e giustificare) un’area di valori liberali e sociali, che sono quelli a cui si ispira la nostra associazione. E di conseguenza delimitare un’area di pratiche di governo effettivo all’interno di quest’angolo di mondo nel quale abbiamo la fortuna di vivere. La scuola si pone obiettivi di medio-lungo periodo e, se è al servizio di qualcosa, essa ha come riferimento un apprendimento basato su valori liberali e tecnico-amministrativi , che possono essere poi praticati a partire dai contenitori politici che le circostanze storiche indicheranno come i più adeguati. Ancora. Come non ci sono preclusioni sull’input, se la scuola funziona non ci sarà uno sbocco obbligato sull’output, sulla “visione politica prodotta”: dalla scuola usciranno diverse visioni di politica e diverse soluzioni sostenibili ai problemi affrontati, ma innanzitutto andrà appreso il vulnus: fare politica in modo tecnico, con le conoscenze congrue al ruolo che si va a ricoprire e consci dello stesso. Discendono da quest’idea di scuola i quattro pilastri formativi sui quali essa dovrebbe fondarsi: il pilastro ideologico-filosofico; il pilastro storico; il pilastro economico-sociale; il pilastro programmatico-tematico. Ma prima di spiegarne brevemente il contenuto è necessario premettere qualche indicazione organizzativa. Anzitutto i partecipanti: giovani alle loro prime esperienze o candidature politiche effettive in partiti o movimenti o organismi rappresentativi, giovani che non escludono dalle loro aspirazioni future la politica come professione espletata con tutti gli strumenti utili al fine di rappresentare al meglio il proprio ruolo nei confronti dei cittadini che li eleggerano. I docenti: a seconda dei casi e dei “pilastri”saranno politici e amministratori senior, professori, intellettuali ed esperti con competenze specifiche nelle materie oggetto dei corsi. La forma: può variare a seconda dei casi, ma l’ossatura dovrebbe essere costituita da alcune serie di week-end residenziali lunghi (venerdì pomeriggio-domenica mattina).

Veniamo ai pilastri dell’offerta formativa, come adesso si dice. I primi due (quello ideologico-filosofico e quello storico) sono di natura molto generale; il terzo (economico-sociale) si baserà sulla conoscenza di quelli che sono i bilanci di un’Ente, le sue peculiarità, i crismi che ci sono al suo interno e la comprensione delle voci che “alimentano” il fabbisogno di un Ente pubblico. Il quarto (programmatico-tematico) si articola invece nella grande varietà di punti specifici che corrispondono alle conoscenze tecniche che un politico o presunto tale debba avere: atti amministrativi,delibere, determine, metodi di funzionamento della macchina amministrativa ecc; oltre a questo ci sarà una macro-area dove si farà riferimento ai vari programmi di governo per meglio comprendere i grandi temi della politica regionale, nazionale e internazionale: dal federalismo alle pensioni, dalla sanità alla giustizia, dalle politiche per le aree depresse a quelle industriali, dalle politiche monetarie e finanziarie a quelle fiscali, dalle politiche agricole a quelle ambientali, dalla riforma amministrativa a quella del welfare, e si tratta già di macro-temi programmatici che vanno ulteriormente articolati al loro interno. Tali pilastri sono cruciali se l’obiettivo principale è quello di creare un politico, capace di leggere criticamente e con riferimenti culturali omogenei sia il recente passato, sia i grandi problemi del presente. Una scuola come quella proposta può certo partire –anzi, deve partire- in modo graduale e sperimentale. Ma la decisione di avviarla è una decisione politica importante. A regime, si tratterebbe di un’istituzione che occuperebbe su base permanente non poche persone, e alcune altamente qualificate, e ne coinvolgerebbe molte (i docenti) e moltissime (i partecipanti) su base saltuaria. Non sono tanto le risorse economiche quelle che mancano: al di là dei soggetti politici più direttamente interessati, credo che non poche imprese e istituzioni avrebbero interesse a finanziare un scuola di formazione politica come quella che ho brevemente delineato, se questa fornisce garanzie di serietà e di competenze. Preoccupano invece la scarsa lungimiranza mostrata in passato dai partiti e soprattutto i sospetti reciproci, i timori che una scuola di formazione politica serva di più all’uno che all’altro, che sia parte di un qualche disegno egemonico o di un qualche progetto politico contingente.